Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria: a che punto siamo?

Uomo in atteggiamento accusatorio verso una donna. La vittimizzazione secondaria

Compie un anno l’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria di D.i.r.e. Donne in rete contro la violenza.  Dopo un anno di lavoro è stata presentata la nuova indagine qualitativa dell’Osservatorio, che individua le principali criticità da parte delle istituzioni che si interfacciano con chi subisce violenza.

Prima, però, facciamo qualche passo indietro. Quali sono le modalità con cui avviene la vittimizzazione secondaria?

Questa la risposta dell’Associazione:

  • non si tengono in considerazione allegazioni e documentazione che provano la violenza subita dalle donne, che diventa “liti in famiglia”, una formulazione che pone la donna che subisce violenza sullo stesso piano dell’uomo che la agisce;
  • si impongono, anche attraverso l’affidamento ai servizi sociali, forme di mediazione familiare, vietata dalla Convenzione di Istanbul in situazioni di violenza, che espongono donne e minori a gravi rischi di abuso;
  • si sottopongono le donne a CTU, consulenze tecniche d’ufficio, che accusano le donne di essere madri ostative o alienanti e che i magistrati trascrivono nei propri decreti, arrivando fino a imporre la separazione forzata di bambini e bambine dalle madri per essere “rieducati/e” alla relazione con il padre che rifiutano.

Perché l’osservatorio?

L’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria di D.i.Re è composto da 30 esperte dei centri antiviolenza con profili professionali diversi: avvocate, psicologhe, sociologhe, operatrici, educatrici, che hanno lavorato attraverso ricerche di tipo qualitativo e quantitativo per indagare più a fondo il fenomeno della vittimizzazione secondaria (o per meglio dire istituzionale)* sulle vittime di violenza, con l’obiettivo di promuovere un cambiamento nell’approccio istituzionale, il più delle volte sbagliato a causa della mancanza di competenze nella gestione di questi casi e mancanza di consapevolezza di cosa sia la vittimizzazione secondaria. Un esempio? La mancanza di consapevolezza del meccanismo che rende possibile la vittimizzazione secondaria. «Le donne tendono a dissociare l’emozione provata nella violenza dall’atto stesso», ha spiegato la psicologa Luisanna Porcu, «il modo di raccontare l’evento è emotivo e talvolta frammentato, ma questa è una reazione naturale, post-traumatica». Spesso, chi, a vario titolo istituzionale e professionale, interagisce con chi subisce violenza, non ha coscienza di questo.

Il campo di ricerca si è focalizzato sulle 84 organizzazioni che compongono attualmente la rete D.i.Re, presenti in 19 regioni dove gestiscono 111 centri antiviolenza, 64 case rifugio e circa 150 sportelli antiviolenza.

* (breve parentesi linguistica) Comunemente si parla di vittimizzazione secondaria, ma il concetto si può anche trovare espresso con il termine di vittimizzazione istituzionale se essa proviene, appunto, da organi istituzionali come tribunali o forze dell'ordine. Si può definire vittimizzazione secondaria quando coinvolge conoscenti, parenti o persone che hanno un legame più stretto con la persona interessata.


Qualche dato (soprattutto) dall'ambito giuridico 

Dalla ricerca è emerso che sono ancora troppo poche le donne che scelgono di intraprendere percorsi giudiziali, penali o civili: solo il 27% dei casi, sui 5740 considerati nel corso della rilevazione. Questo, indubbiamente, indica scarsa, anzi, scarsissima, fiducia nelle istituzioni da parte della popolazione femminile, che preferisce non imbarcarsi in un processo. Tra quelle segnalate come vittimizzanti ci sono i servizi socio-sanitari, i consulenti tecnici d’ufficio, le forze dell’ordine e i tribunali. 

Non c'è da stupirsi per questo se, quando le donne portano alla luce le violenze, rischiano di incappare in problemi che sembrano la norma, ma non dovrebbero esserlo: interpretazione errata della violenza, che diventa conflitto di coppia, mancanza di rete tra le istituzioni e assenza di protocolli d'intervento. 


In quali fasi del percorso in tribunale si riscontra una percentuale maggiore di vittimizzazione? Soprattutto ad azione ben avviata (nel 91,7% dei casi), ma l'inizio e la fine del percorso non sono esenti. 

Dalla ricerca sono emersi altri due aspetti da considerare: 

 1) Durante il percorso in tribunale scompare la parola violenza e tutto viene ricondotto, sbagliando, al normale e ordinario conflitto di coppia, ma che fine fa il punto di vista di chi, invece, ha subito un abuso? Ecco che, anche in questo caso, ciò che non viene nominato (la violenza, perchè fondamentalmente chiamarla per quello che è fa paura) non viene riconosciuto e piano piano scompare. Di conseguenza, le donne non si sentono (e non sono) tenute abbastanza in considerazione e credute. La mancanza di riconoscimento della violenza, spesso, è ciò che scoraggia le donne davanti alla possibilità di denunciare e, nel peggiore dei casi, potrebbero anche spingerle a minimizzare a loro volta e, addirittura, dare un'altra possibilità al maltrattante. 

2) Altrettanto grave è la rarità dei casi in cui viene fatta la valutazione del rischio su quegli atti che possono diventare violenza. Una valutazione adeguata porterebbe protezione alle vittime e prevederebbe misure cautelari verso i maltrattanti; se questo non avviene, al contrario, interventi tardivi o assenti mettono a rischio benessere e sicurezza delle donne e anche la loro volontà di perseguire percorsi giudiziari. 

Da dove partire per cambiare?

Sono due dati importanti, perchè se queste falle del sistema diventano davvero visibili, non solo agli occhi di chi è addett* ai lavori, allora si può avviare un cambio di passo. Come? Magari partendo proprio da qui: nominare e riconoscere la violenza e  fare un'adeguata valutazione dei rischi. Cosa dire delle iniziative di formazione? Non possono mancare e devono diventare un reale punto di appoggio, dentro e fuori dai tribunali, perchè spesso non coinvolgono a sufficienza il personale che deve interagire in prima persona con chi subisce violenza. Ma non è esclusivamente una questione di formazione o di sensibilità personale da parte di magistrati/e, avvocati/e, servizi sociali; si tratta anche di prendere posizione e scegliere di andare oltre lo status quo, per superare lo stereotipo tossico della donna complice nella sua stessa violenza, perchè "se l'è cercata". 

I dati sull'Osservatorio sono stati presentati sabato 19 novembre a Verona, in occasione dell'incontro La parola delle donne. Vittimizzazione secondaria. Criticità e buone pratiche.

                                                                                      Federica Carla Crovella




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