Prendersi cura di sé è una soft-skill, proprio come la maternità


Settembre è il mese della ripresa dopo la pausa estiva, anche per le mamme, anche per le donne che non hanno figli e anche per quelle che sono lavoratrici e madri al contempo.

Secondo l’Ispettorato del lavoro, nel 2020 delle 42mila dimissioni di genitori con figli da zero a tre anni, il 77,4% era donna, ma, se ci mettiamo dalla parte dell’azienda, che cosa si vede?

Una ricerca dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed restituisce risultati importanti.

L’82% delle mamme coinvolte nei percorsi Lifeed ha scoperto di avere più forza di quanto credesse e di possedere capacità che non pensava di avere; acquisite proprio grazie all’esperienza genitoriale. Anche le competenze di leadership sono più sviluppate in chi ha fatto e fa esperienza ogni giorno della maternità; questo vale in particolare per i neo genitori. Le madri, quindi, quando rientrano in azienda sono un grande valore aggiunto, anche grazie a quel periodo vissuto lontano dal posto di lavoro.

L’errore di sentirsi in colpa

Sempre da questa ricerca è emerso che l’80% delle madri sente di mettere i propri bisogni e desideri al secondo posto, poiché il tempo per sé è vissuto con conflittualità e senso di colpa. La causa, dice lo studio, è il disvalore che si attribuisce alla cura di sé, che dalle donne, mamme soprattutto, è percepita come azione egoistica, uno sfizio o qualcosa di sterile. Quasi tutte le mamme (98%) vivono il tempo dedicato alla cura di sé come tempo sottratto ad altro, considerato più importante: la cura familiare, della casa o il lavoro. Per gli uomini, questa percezione è emersa nel 65% dei casi (il 33% in meno rispetto alle donne). Poi, secondo buona parte delle madri coinvolte nella ricerca (55%) un fattore che le spinge a non tener conto di sé è la mancanza di tempo. Che cosa ne consegue? Una gerarchia di priorità dove la cura di sé finisce all’ultimo posto rispetto a compiti e bisogni considerati prioritari. La mancanza di tempo è riportata anche dai padri, ma nel 30% dei casi (-25% rispetto alle madri).



Questa forma di attenzione a sé si può anche definire ‘egoismo gentile’ e consiste nel darsi la stessa attenzione e la stessa cura che si riserva al lavoro, ai figli, alla casa; mettersi al primo posto, senza aspettare che arrivi il momento di calma in cui poterselo permettere.

La cura di sé può aiutare sul lavoro

Anche prendendosi cura di sé si acquisiscono competenze poi spendibili anche in un contesto lavorativo. Approfondiamo! Secondo i dati diffusi dell’Osservatorio vita-lavoro, prendersi cura di sé, intesa come pratica quotidiana, allena in percentuale anche la capacità di iniziativa (88%), innovazione (65%), attenzione (54%), gestione dello stress (45%), sicurezza di sé (25%) e competenze relazionali (20%)

Anche l’azienda, però, deve saper fare la sua parte. Il primo passo è essere consapevole del valore che ha la maternità, anche in ottica professionale; poi, dovrebbe fornire strumenti aziendali adeguati, che agevolino la sinergia vita-lavoro e la coesistenza di competenze professionali e personali.

Qualche consiglio pratico per aziende e lavoratrici

Ecco il punto di vista della Professoressa Chiara Ghislieri, docente di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università di Torino

 Come sensibilizzare le aziende sul valore della maternità e sui risvolti positivi che può avere sulle lavoratrici?

Credo sia anzitutto necessario un cambio di paradigma, nel discutere di vantaggi, ampliando la questione alla genitorialità, evitando quindi, anche con questo approccio, di affermare (e quindi “far sì”) che i compiti di cura ricadano sulle madri. Sostenere scelte genitoriali libere dagli stereotipi di genere è un passaggio fondamentale: poi potranno esserci donne che sceglieranno di occuparsi principalmente della cura, uomini che decideranno di farlo o quanto meno di condividere il carico, mentale e fisico della cura, non solo affiancare in modo subordinato, ma smettere di parlare della genitorialità con un accento sul femminile è importante. Non è però esaustivo, servono misure concrete, e l’ampliamento dei congedi per i padri è un esempio, sia come misura pubblica, sia come azione legate ad eventuali politiche di welfare aziendali. Del resto, molte delle aziende che si collocano bene nella classifica Great place to work offrono misure di questo tipo.

Una genitorialità ben vissuta, con risorse adeguate, serenità rispetto alla futura ripresa del proprio lavoro, è sicuramente un vantaggio per l’organizzazione: è un processo che vede la vita extra-lavorativa “arricchire” la vita lavorativa, si nuove risorse apprese, di pienezza di vita, di soddisfazione generale che a sua volta si può tradurre in una partecipazione di qualità alla vita di lavoro, soprattutto se la vita di lavoro è improntata alla qualità, fornisce supporti, garantisce comprensione per l’importanza dei confini tra dentro e fuori l’organizzazione. Le aziende che agiscono in questa logica hanno un ritorno immediato, si rafforza il legame con il lavoro e con il contesto. Gli studi che vanno in questa direzione sono elementi che dovrebbero sostenere decisioni organizzative non solo “family-friendly” ma, più diffusamente, “life-friendly”.

C’è poi un discorso che ha a che fare con le scelte delle persone, con il fatto che, sempre di più, le generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro hanno una forte richiesta di mettere a frutto le conoscenze e le competenze acquisite nella formazione in contesti che garantiscano un buon equilibrio lavoro-vita. Diventa quindi, per le organizzazioni, anche un elemento importante per attrarre e trattenere le persone nelle organizzazioni.

Quali sono le possibili soluzioni?

Certamente un approccio family o life friendly ha un forte ritorno ma richiede investimenti mirati, coerenti con la cultura dell’organizzazione. In un recente lavoro di analisi del disequilibrio di genere in alcune aziende italiane è emerso come la strategia di alcune aziende rispetto alla maternità sia “far finta di niente”, come se questa fosse la vita per uscire da una logica di penalizzazione. In realtà sappiamo bene che non è così: quando una persona ha un figlio ha bisogno di un tempo dedicato alla cura, di un diverso supporto sia prima di fermarsi in congedo sia al rientro, di un sistema di relazioni che non sia una rete su cui ricade in modo disordinato e indiscriminato il suo carico di lavoro ma un processo pensato per compensare la mancanza, con anticipo, e per fruire delle nuove risorse che la persona porterà al suo rientro. Accanto a questo aspetto più generale che ha a che fare con l’idea di organizzazione, con il pensare l’organizzazione in una dinamica di benessere, ci sono poi tante piccole soluzioni su cui c’è ampia letteratura e tanti suggerimenti, dagli asili, alle convenzioni, ai buoni, fino alle forme di condivisione del lavoro e a un uso sensato e misurato delle forme di lavoro a distanza.

Assumendo il punto di vista delle lavoratrici, invece, come si potrebbe riformulare in chiave costruttiva il concetto del tempo dedicato alla cura di sé in quanto donne, perché non sia più percepito come atto egoistico?

La cura di sé è necessaria per la sopravvivenza. Io non credo tanto che il problema sia delle lavoratrici ma della società in cui ci muoviamo ancora intrisa di stereotipi non solo di genere, anche legati al dovere, al sacrificio, alla disponibilità illimitata. Siamo uno dei paesi, in Europa, in cui si lavora più ore a settimana, non necessariamente con una maggiore qualità del processo o del prodotto: questo dato è una “sentinella” di come, ancora oggi, l’etica del lavoro è quella della devozione. Anche la cura, come il lavoro, è segnata da questo marchio di fondo: è in questo contesto che si rischia di non ascoltare e non rispondere al proprio bisogno di cura di sé. Il lavoro collettivo, da fare, è enorme.

Che cosa potrebbe fare l’azienda, o comunque il datore di lavoro, per contribuire a diffondere “l’egoismo gentile” tra le lavoratrici?

Penso sia fondamentale rispettare il tempo di non lavoro, avendo, per ciascuna lavoratrice e per ciascun lavoratore, un approccio per obiettivi (chiari e raggiungibili) e “dismettendo” tutte quelle pratiche, spesso informali, talvolta impercettibili, che premiano chi sta al lavoro più tempo, chi risponde alle e-mail nel week-end, chi è sempre disponibile, anche durante le ferie. In paesi decisamente solidi da un punto di vista economico, le politiche e pratiche lavorative sono già improntate a valorizzare la qualità del lavoro e non la quantità delle ore spese al lavoro, a rispettare i confini della vita personale, a fornire esempi, attraverso la leadership, di stili di vita equilibrati. E le organizzazioni sopravvivono, sopravvivono bene. Poi non guasta se l’azienda offre anche soluzioni vantaggiose per avere tempo dedicato alla cura, non tanto palestre aziendali, corsi di yoga o altro “in azienda” (si corre sempre il rischio di dare un messaggio di “controllo” anche del tempo non lavorativo) ma convenzioni con servizi sul territorio, comodi anche per chi non vive vicino all’azienda. Perché in genere le persone hanno bisogno di vivere “fuori”, anche dalle aziende più family-friendly. Consentire questo spazio è già un buon inizio.

Federica Carla Crovella

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