Novità "di genere" in casa Treccani: il femminile arriva nei lemmi. Il pensiero di chi si occupa di linguistica ogni giorno

Vocabolario e utilizzo del femminile e maschile nei lemmi. Treccani sceglie di usare anche il femminile

L'ultima novità in materia di parole arriva dal vocabolario Treccani, che ha deciso di dare a femminili e maschili la stessa importanza. Come? Indicando, nella sua versione aggiornata, entrambe le forme in un’unica voce, quindi ponendoli sullo stesso piano, e disponendoli in ordine alfabetico: “amica, amico” oppure “direttore, direttrice”.

Ma il rinnovamento della Treccani non finisce qui. Il vocabolario darà spazio anche ai femminili di molte professioni che, pur essendo forme attestate della lingua italiana, si riferiscono a lavori percepiti come storicamente maschili, come “avvocata”, “sindaca”, “ministra”, altri meno come “medica” o “soldata”.

Sono in arrivo cambiamenti anche per il termine “uomini”, in quei casi in cui viene usato per indicare gli esseri umani e non soltante le persone di genere maschile. In questo caso, appunto, la scelta da preferire è esseri umani o persone.  

La linguista Valeria Della Valle, prima linguista a dirigere un’edizione del vocabolario di Treccani nel 2008, ha spiegato che «il fatto che i vocabolari registrassero aggettivi e nomi al maschile corrisponde a una visione androcentrica» e ha concluso: «i vocabolari sono sempre stati diretti unicamente da uomini».

Tra tutte le novità, ci saranno anche termini recenti, che sono eredità della pandemia; per esempio, probabilmente ci sarà la dad (didattica a distanza), il distanziamento sociale, l'infodemia, il lavoro agile.

E adesso che cosa succede?


Le parole non modificano solo il modo in cui parliamo, ma anche il contesto in cui viviamo, spesso anche per lunghi periodi, a volte in modo definitivo. Questa azione, questa scelta comunicativa di Treccani ne è la prova. 


Le parole hanno un potere


  • Da qui si può partire per liberarsi - e liberare le parole stesse - dal cosiddetto "suona male", cominciando ad usarle in modo appropriato, seguendo la grammatica, usandole anche in contesti in cui fino ad oggi erano sentite come cacofoniche. Se entrano nell'uso inglesismi come smartworking o acronimi come dad, perché continuare a negare l'esistenza di ingegnera? 
  • Questo è un punto di partenza per smettere di attribuire al maschile il valore di universale-inclusivo e di neutro. Tempo fa avevo scritto di maschile sovraesteso. Certo, bisognerà continuare a lavorare per cancellare l'alone di autorevolezza e prestigio che ancora oggi c'è nell'utilizzo del maschile in riferimento a una donna, che quindi può chiedere di essere "l'avvocato" e non "l'avvocata". Qui avevo approfondito questo aspetto. 

E adesso che cosa succede? 

Faccio la stessa domanda a Manuela Manera, linguista, editor, formatrice, autrice del libro La lingua che cambia

Succede che ci sarà (anzi, già c’è stato) chi urla allo scandalo e all’inutilità di questa decisione, affermando che i veri problemi sono ben altri, che non è questo il modo per ottenere la parità, che il maschile è neutro… Insomma, i soliti argomenti che, quando si parla di linguaggio inclusivo, sono presentati per distogliere l’attenzione dall’importanza di un uso corretto della lingua. Il fatto di lemmatizzare e presentare come varianti di pari visibilità, uno accanto all’altro, il maschile e il femminile ha un alto valore simbolico e un forte impatto sull’immaginario. È una scelta rivoluzionaria nella lessicografia.

In che modo questa iniziativa può avere un risvolto costruttivo sulla società di oggi, non solo dal punto di vista dei parlanti, ma anche su di noi in quanto persone? 

Partendo dalla constatazione che i dizionari oggi forse non sono più molto consultati (almeno dalla maggioranza delle persone), restano tuttavia strumenti presenti nelle scuole, in cui ancora fino a oggi quando si offre una riflessione metalinguistica (dunque si illustra la grammatica italiana) si ribadisce che la versione “normale”, non-marcata, standard per nomi e aggettivi è quella maschile: ora diventa “normale” anche il femminile. La ricaduta che una simile scelta può avere sta anche nella validazione di forme (come i femminili dei nomina agentis ovvero nomi comuni che indicano incarichi, professioni, ruoli) ancora poco diffuse o su cui c’è una forte incertezza nell’uso anche da parte di persone che lavorano nell’ambito della comunicazione. Dunque, poiché ora è “certificata” l’esistenza di certe parole e spesso il dizionario è percepito come strumento normativo più che descrittivo, ecco che come effetto potremmo avere una maggiore diffusione dei femminili in articoli giornalistici, comunicati istituzionali, trasmissioni radio-televisive, libri scolastici… Almeno questo è il mio auspicio. Senza considerare che, d’ora innanzi, chi cercherà “avvocato” non potrà fare a meno di vedere (e ben evidenziato!) che esiste anche “avvocata”.

Forse questo passo potrebbe aprire nuove strade all'uso del linguaggio inclusivo, per sconfiggere il benaltrismo: in che modo? 

Su questo punto sono pessimista (o realista?): il benaltrismo c’è sempre stato e sempre ci sarà. Anzi, più si tende a rendere la lingua un luogo democratico e attento a non opprimere, marginalizzare, discriminare, e maggiori diventano le resistenze di fronte ai cambiamenti: le critiche si fanno più aggressive fino a diventare vero e proprio hate speech. 

Di certo è un passo in avanti, ma non è sufficiente. Che cosa si deve ancora fare, o che cosa si deve fare meglio, per una comunicazione più aperta e rispettosa delle identità?

Iniziare a mettere in pratica in modo più pervasivo sia in ambito professionale sia nella vita privata strategie linguistiche che disinneschino le asimmetrie di genere presenti ancora oggi nella comunicazione; ovvero, portare avanti – con coerenza – scelte linguistiche che rafforzino una cultura di parità. È un obiettivo difficile da raggiungere perché significa scardinare vecchie abitudini, talvolta andare controcorrente: oggi, però, abbiamo un supporto in più, utile sia in caso di dubbio sia come appiglio di fronte alla fatidica obiezione che sempre arriva: “ah ma questa parola (con riferimento a un femminile poco ricorrente, per es. arbitra) non esiste, non si dice, non è corretto”. Grande sarà la soddisfazione nel rispondere “Davvero? Controlla sul dizionario”. Le parole, certo, da sole non bastano, neppure quando hanno la dignità di lemma: eppure è un punto – importante, fondamentale – da cui partire.

Federica Carla Crovella 



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