Violenza psicologica: come si manifesta e come si può arginare? Ne parlo con Annamaria Fantauzzi


Rimane spesso nascosta e non sempre viene riconosciuta facilmente, quando non è addirittura sottostimata, ma anche la violenza psicologica è annoverata nella violenza di genere. È più frequente di quanto si pensi e si può manifestare in tanti modi, si declina sempre in attacchi alla persona, con lo scopo di ferirla, in pubblico o nel privato. Raramente sono episodi sporadici, ma possono rivelarsi più o meno frequenti e intensi.

Approfondiamo il fenomeno insieme ad Annamaria Fantauzzi: antropologa e psicologa clinica, docente  presso l'Università di Torino e presidente di Prati-care ONlus (missioni in Senegal,Gambia, Kenya, centri di accoglienza in Sicilia).

Come si può manifestare la violenza psicologica nelle sue varie forme e declinazioni, dal punto di vista della persona maltrattante?

Premetto che la violenza psicologica non avviene solo tra adulti, ma può verificarsi anche tra adolescenti e tra pari, ad esempio sui banchi di scuola con atti di bullismo. Se ragioniamo, invece, in ottica di genere e pensiamo a una coppia di persone adulte non è detto che sia sempre la donna che subisce rispetto all’uomo, ma avviene anche il contrario. L'abuso psicologico si verifica, ad esempio, quando si sottolineano dei difetti fisici o caratteriali, fino a limitare il benessere psicologico del soggetto; avviene svalutando l’altra persona ed evidenziando delle sue inadempienze o incapacità, che la fanno sentire inadeguata e incapace, ad esempio nella gestione famigliare. Spesso la violenza psicologica nella coppia si trasforma in violenza anche economica,* con una limitazione nella gestione del denaro; fenomeno che, statisticamente, è più frequentemente da parte dell’uomo verso la donna.

Invece, che cosa succede nella mente e nell’animo di chi la subisce?

Spesso il disagio si manifesta fisicamente anche con attacchi di panico e di ansia e con un disturbo post-traumatico. Alcune delle reazioni più frequenti possono essere l’abbassamento dell’autostima e della fiducia in sé stessi, oppure anche un aumento dell’aggressività come meccanismo di difesa; oppure, si può manifestare con un indebolimento della capacità di reazione e della capacità di prendere decisioni in autonomia; perché si verifica una sorta di “perforazione cognitiva” che lede l’equilibrio della personalità.

C’è il rischio di non riconoscere subito questa forma di abuso; al contrario, scambiare alcuni atteggiamenti per attenzione e amore e lasciarsi confondere da comportamenti scostanti: come evitare tutto questo e tutelarsi?

Nel migliore dei casi si dovrebbe instaurare un dialogo tra le parti, attraverso cui manifestare il malessere e il disagio, così come il desiderio di essere più autonomi o essere trattati diversamente. Poi è importante riuscire a capire quando nel rapporto prevale una forma di controllo da parte dell’altro/a e, in questo caso, bisogna saper riconoscere che c’è qualcosa che non funziona: la consapevolezza che questi atteggiamenti possano ricondurre a una forma di violenza psicologica - o almeno di iper-controllo - è il primo passo.

Sicuramente, quando c’è la percezione di essere in una relazione tossica consiglierei, dove possibile, di rivolgersi a professionisti/e per farsi aiutare sul piano emotivo e psicologico. Accettare e capire che un/a professionista possa entrare nell’ambito della propria vita personale è un passo di consapevolezza maggiore, perché tante persone rifiutano anche questo, ma lo consiglierei sia a una fascia d’età adolescenziale sia, soprattutto, a persone/coppie adulte, perché in questo caso è più difficile che persone esterne, ad esempio amici o amiche, entrino nel rapporto.

Può essere utile anche a ragazzi e ragazze, ma per loro è importante anche poter far affidamento su genitori e insegnanti. In ogni caso, è importante non chiudersi nel silenzio, ma comunque parlarne e confrontarsi con persone di fiducia, anche che non siano necessariamente dentro al rapporto. 

Credo possa avere una grande utilità anche seguire dei corsi, dei dibattiti e documentarsi su libri ad hoc, che creano consapevolezza e fanno informazione in modo corretto.  

Un altro rischio è farsi sopraffare dal senso di colpa dopo una denuncia, e magari, a volte, capita anche di ritrattare: come far fronte a questo?

Quando una donna ritira una denuncia, dentro di lei spesso scatta qualcosa che è più forte dell’autopreservazione; paradossalmente prevale la forza del legame con l’altra persona, anche se può fare del male, sia che si tratti di un rapporto coniugale o genitoriale. 

Io parto dal presupposto che non ci sia senso di colpa, ma esista il senso di responsabilità. Agire significa, appunto, prendersi la responsabilità di ciò che si fa, ma questo presuppone anche che si siano valutate le conseguenze. Questo porta a rafforzare l’agency, cioè la capacità di agire in modo pragmatico, riconoscendo di aver subìto un abuso e di aver denunciato perché la difficoltà non sarebbe stata risolvibile senza aiuti esterni: normalmente il sostegno psicologico serve proprio a questo ed è importante non dimenticarsi del motivo per cui si è arrivate alla denuncia. 

Come comportarsi con chi è vittima di violenza psicologica e, in modo più o meno esplicito, lancia dei messaggi che sono richieste d’aiuto?

Già parlarne vuol dire molto: un accorgimento immediato può essere non lasciare sola la persona che manifesta il disagio, sia fisicamente -  se possibile - sia emotivamente, per poi indirizzare verso un percorso di uscita dalla violenza. Concretamente, una persona non professionista può mettere in guardia su quello che può succedere in caso di abuso e far capire che ci sono centri dedicati e operatori e operatrici del settore che possono intervenire concretamente. Poi, di fatto, un cittadino comune deve anche considerare le conseguenze giuridiche in cui può incorrere, pur volendo fare del bene; ad esempio la violazione della privacy.

Federica Carla Crovella 

 

* di violenza economica ho parlato qui 

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