Uguaglianza VS Parità: tra linguistica, storia e... diritto


Che cosa cambia tra la “parità di genere” e l' “uguaglianza di genere”?  Sono due concetti simili, che a volte vengono scambiati per sinonimi, ma non lo sono. C'è una sfumatura di significato in cui si possono ritrovare le lotte femministe, anni di storia e di  disuguaglianza fra uomini e donne, anche sul piano giuridico. 

L'enciclopedia Treccani definisce parità "il fatto di essere pari; rapporto di uguaglianza o di equivalenza fra due o più cose" (in questo caso dobbiamo dire persone). Definisce uguaglianza la "condizione di cose o persone che siano tra loro identiche, o abbiano le stesse qualità, gli stessi attributi in ordine a determinate relazioni. In particolare, condizione per cui più persone o collettività hanno diritto a essere considerate tutte alla stessa stregua, cioè pari, soprattutto nei diritti politici, sociali ed economici". 

Cosa significa chiedere la parità? Non vuol dire promuovere un modello di società che non tiene conto delle differenze tra uomo e donna, come se queste non esistesero, ma vuol dire fare in modo che non diventino fonte di discriminazione e non implichino un destino già scritto sia per l'uomo sia per la donna. 

Oggi la parità di genere è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dall’Agenda 2030.

Una parentesi di storia e giurisprudenza  

Prima di arrivare a questo, però, c'è stata molta strada, costellata di cambiamenti storici e anche giuridici. 

Tra la fine del 1700 e l'inizio del 1800 le donne chiedono uguali diritti rispetto agli uomini; si parla di uguaglianza, dopo anni di disuguaglianze assunte come regola non solo di vita, ma anche sul piano giuridico. Per le donne non c'era diritto di voto, non c'erano posti in Parlamento e il genere femminile è escluso da una lunga serie di professioni, tra cui anche quella di avvocato.

La prima donna che ha superato l'esame per diventare avvocato è stata Lidia Poet, che, però, dopo poco viene subito cancellata dall'Ordine. 




Queste alcune motivazioni: 

"sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste. Considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa leggiadra [...]"

Livia Poet lotta a lungo per difendere il suo diritto di esercitare la professione e nel 1920, quando cadono le preclusioni per le donne all'accesso all'avvocatura, all’età di 65 anni riesce finalmente a iscriversi all’Albo degli avvocati di Torino. 

Con l'avvento della Costituzione, nel 1948, si chiude la fase di disuguaglianza giuridica e si inaugura un principio del tutto nuovo: quello dell’uguaglianza di uomini e donne davanti alla legge. Proprio grazie al principio di uguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione, Rosa Oliva è la prima donna a diventare prefetto, nel 1960. Sui giornali si parla del "prefetto con lo chignon". 


foto da www.reteperlaparita.it

Questa la sua storia: dopo la laurea in Scienze Politiche, Oliva si imbatte in un bando pubblico per il ruolo di prefetto,  riservato a figure maschili. Non potendo partecipare al concorso, si rivolge al costituzionalista Costantino Mortati, suo professore all’università, chiedendogli aiuto per presentare ricorso. Lo vince e, grazie a  questa azione viene abrogata la vecchia legge del 1919 che, in contrasto proprio con il principio di uguaglianza della Costituzione, vietava alle donne di partecipare a tutti quei concorsi pubblici prima riservati agli uomini

Di fatto, con l'inizio degli anni Ottanta del 900 le leggi italiane dicono no alle maggiori discriminazioni tra uomini e donne: arrivano la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, la fine del matrimonio riparatore e così via. Ma tutto questo è sufficiente? 

Un reale cambio di passo? 

Avere sulla carta gli stessi diritti non significa che le donne abbiano, di fatto, raggiunto la parità. Infatti, in tanti ambiti della vita oggi le condizioni di partenza tra donne e uomini non sono allineate. Ad esempio, le donne sono ancora caricate della maggioranza delle incombenze famigliari e per questo hanno ancora più difficoltà degli uomini ad essere assunte. Fino a quando le donne non avranno uguali condizioni di partenza rispetto agli uominiinvocare uguale trattamento rischierà addirittura di ritorcersi contro le donne stesse, come un bumerang. Qui si passa dalla stagione della ricerca dell'uguaglianza a quella della parità. Qui ne ho parlato dal punto di vista linguistico. 

L'una però non nega e non esclude l'altra, ma si avverte oggi una sensibilità diversa, insieme alla necessità di rendere la differenza un valore. Questo anche grazie al passaggio dal femminismo dell'uguaglianza, con cui le donne chiedevano lo stesso trattamento che avevano gli uomini, a quello delle differenze, in cui le peculiarità femmili rispetto a quelle maschili diventano oggetto di una rivendicazione positiva. 

Ecco come questa maggior attenzione alle differenze porta a concepire il cammino dell'uguaglianza tra uomini e donne a un percorso per la parità; proprio quella a cui facevamo riferimento in apertura dell'articolo di oggi. 

Federica Carla Crovella




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