Pubblicità sessista e discriminatoria: un piccolo stop e tante domande

foto da www.adnkronos.com

I
n Senato si torna a parlare di identità di genere e sessismo dopo l’affossamento della Legge Zan. A scatenare altre polemiche questa volta è una norma nel dl Infrastrutture, che propone "il divieto di pubblicità che proponga messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso, dell'appartenenza etnica oppure discriminatori con riferimento all'orientamento sessuale, all'identità di genere, alle abilità fisiche e psichiche". Il riferimento è a quelle pubblicità che ancora si vedono lungo le strade e sui mezzi pubblici. 

Sono stati 190 i voti favorevoli, 34 i contrari. È stata definita una norma “ideologica e volta a limitare la libertà di espressione”: queste le parole del senatore Lucio Malan di Fratelli d’Italia, che con il suo partito ha votato “no” al testo, esteso non solo all’identità di genere, ma anche ai messaggi che discriminano donne, persone con disabilità, comunità lgbt+ o persone straniere. C’è chi ci vede una riproposizione di quella Legge Zan bocciata tra gli applausi  e chi, invece, lo sente un traguardo importante. 

I perchè difficili da accettare 

Certo, viene da chiedersi il perché di quei 34 contrari, andando oltre le dichiarazioni rilasciate, che forse oggi, dopo la questione del ddlZan sanno un po’ di questione di principio, pugno duro, muro contro muro. La stessa domanda, perchè, nasce per quello che oggi è un grande limite di questo testo: non è esteso alle pubblicità che circolano sulle reti televisive e nel digitale, che, soprattutto tra le nuove generazioni, sono luoghi ben più frequentati e facili da raggiungere. 

Da sempre, il sessismo, la violenza, lo stereotipo  sono stati usati per “fare audience”, creare consensi, ottenere approvazione, seguito e magari anche guadagno. L’errore è pensare che si possa andare avanti su questa strada e non si debba – nonostante si possa – cambiare questa narrazione. Certo, il messaggio costruttivo è più complesso da elaborare ed è anche quello che suscita meno approvazione. Questo, in sé, è già il campanello d’allarme che fa capire quanto sia forte l’urgenza di cambiare passo. Inutile dire che fare ancora affidamento su foto di corpi seminudi o messaggi come “te la diamo gratis, la patata acquistando due polli” per fare pubblicità al girarrosto è vergognoso, anacronistico e diseducativo, ma è anche indice di poca professionalità e scarsa, se non nulla, attenzione agli sviluppi della società in cui viviamo.

la comunicazione in Italia

Restando in Italia, come si può regolamentare la pubblicità? C'è lo IAP, Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, che ha lo scopo di diffondere «una comunicazione commerciale responsabile, a vantaggio di tutti: delle aziende che richiedono il rispetto delle regole della concorrenza; dei cittadini-consumatori che rifiutano messaggi ingannevoli o offensivi; dei mezzi i quali auspicano che i contenuti editoriali non vengano inquinati da messaggi non graditi al pubblico».

Lo IAP opera attraverso il Codice di Autodisciplina, che interessa agenzie, concessionarie di pubblicità e più in generale aziende che investono in comunicazione, consulenti, mezzi di diffusione. Non sono le aziende che possono segnalare contenuti indesiderati e inappropriati, ma anche la cittadinanza. Che cosa può fare? Ritirare le campagne e in generale i contenuti ritenuti offensivi, ma il limite che si incontra è, ancora, la discrezionalità di ciò che è da ritenere offensivo, per l’assenza di norme codificate e condivise. Infatti, talvolta, la natura sessista e/o discriminatoria dei contenuti segnalati alle autorità competenti non viene riconosciuta nemmeno dalle stesse, perché manca una regolamentazione. Questo è ciò che ha messo in luce la Fondazione Brodolini nel 2013, ma oggi cosa è cambiato?

Per la rappresentazione della donna nella pubblicità, mancano riferimenti precisi a rappresentazioni, immagini, messaggi che siano assimilabili a manifestazioni di sessismo, come la riduzione del corpo femminile all’oggetto sessuale, diffusione di ruoli stereotipati o incitamento alla violenza. C’è il riferimento a una corretta rappresentazione della femminilità, ma resta una formulazione generica. Forse, allora, non manca solo la regolamentazione, ma anche la formazione specifica e la consapevolezza di che cosa siano e come siano rappresentati gli stereotipi, di quale sia il limite da non superare per evitare di divulgare la violenza.

La comunicazione è empatia… o almeno così dovrebbe essere

Oggi è stato necessario un divieto: perchè? Altrimenti cosa succederebbe? Manca ancora la consapevolezza della responsabilità sociale e culturale che hanno la pubblicità e la comunicazione, oppure non c'è la volontà di dare messaggi diversi? 

Chi fa comunicazione, online e offline, non fa solo marketing, ma per prima cosa trasmette messaggi e valori; tuttavia, certe pubblicità lasciano il sospetto che a volte le persone se ne dimentichino. 

Chi scrive e comunica, in qualsisi forma, dovrebbe prima pesare bene le parole e riflettere su che cosa sta divulgando, considerare i valori - o i disvalori - che andrà a diffondere. Quei minuti in più trascorsi a pensare, prima di passare all'azione, possono avere un effetto benefico sulle generazioni future, perchè si trasmettono messaggi più sani, e su quelle di oggi, perchè spostando l'attenzione sulle persone si pensa anche alle corde che le parole faranno vibrare dentro di loro, in positivo e in negativo. Questa si chiama empatia e troppo spesso oggi il mondo - non solo quello della comunicazione - non ne ricorda il significato. 

                                                            Federica Carla Crovella 

 

 

 

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