Tra parole e attualità: costruire una narrazione diversa dopo il “caso” Palombelli


A quanto pare, se una donna ha comportamenti esasperanti e aggressivi nei confronti di un uomo, ucciderla è una reazione «lecita». Questo è quello che si legge dietro il discorso di Barbara Palombelli durante lo Sportello di Forum di qualche giorno fa, parlando dei femminicidi dell’ultima settimana. 

Queste le sue parole: 

“Parliamo di rabbia tra marito e moglie. Negli ultimi sette giorni ci sono state sette donne uccise presumibilmente da sette uomini. A volte è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte? È una domanda che dobbiamo farci per forza, soprattutto in questa sede, in tribunale bisogna esaminare tutte le ipotesi" 

 

Tra lessico e attualità: dove stiamo andando?  

Questo non è giornalismo sano, ma victim blaming: la colpevolizzazione della vittima da parte dei media e dell’opinione pubblica, che non solo mette in dubbio l’effettiva responsabilità di chi compie il femminicidio, ma addirittura la ridistribuisce tra assassino e vittima. Automaticamente, il focus non è più su chi ha ucciso, ma lo sguardo scivola su chi ha perso la vita, perché "forse se l’è cercata".

Il victim blaming è uno dei tasselli che alimentano la cultura dello stupro: concezione che normalizza la violenza sulle donne, in tutte le sue forme. Il termine nasce negli Stati Uniti – corrisponde all’inglese rape culture – negli anni ’70 dal movimento femminista di seconda ondata. Perché identificare questo concetto addirittura con un termine apposito? Per mettere fine all' idea sbagliata e fuorviante che la violenza sulle donne sia un fenomeno fuori dall’ordinario, eclatante, episodico. Questo modo di pensare è pericoloso, la realtà è ben diversa e il numero esorbitante di donne che perdono la vita ogni giorno lo conferma: la violenza sessuale è radicata nella nostra società ed è insita nella cultura patriarcale che essa stessa veicola.

Se fosse ancora poco chiaro, i dati spiegano bene come si traduce tutto questo nella mente di tante persone. Secondo l’ Istat (2019) il 39,3% della popolazione pensa che una donna sarebbe in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo volesse, il 23,9% ritiene che l’abbigliamento di una donna possa essere causa della violenza sessuale, per il 15,1% della popolazione una donna è colpevole della violenza subita se ubriaca o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, il 7,2% è convinto che se le donne dicono “no” ad una proposta sessuale in realtà intendono “sì”, per 6,2%  “le donne serie” non vengono violentate. 

Ecco che, la cultura dello stupro alimentata dal victim blaming non solo legittima la violenza, ma assume il punto di vista degli uomini e ne prende le parti, fa di loro delle vittime esasperate dai comportamenti delle donne e, di conseguenza, individua il colpevole sbagliato.

La “partita giocata” della narrazione tossica

Se stessimo giocando una partita di pallavolo, Barbara Palombelli sarebbe un’ottima alzatrice, che con un passaggio perfetto, regala a chi è pronto a schiacciare la possibilità di fare un altro punto. In questo caso, sottorete c’è proprio la cultura dello stupro, che ha raggiunto presumibilmente un’enorme fetta di pubblico, poiché Forum va in onda su una rete nazionale come Rete4.

Alla luce di questo, chi può vincere la partita tra il victim blaming e la narrazione costruttiva di genere, che cercano di fare alcune/i colleghe/i? Quanta risonanza avrà chi, probabilmente ben consapevole di ciò che stava facendo per audience, insinua il dubbio che la donna abbia una parte di responsabilità nella sua stessa morte? Tante accuse si sono alzate da più parti: l'intento di denuncia non è sbagliato, soprattutto per la memoria delle vittime e per il rispetto della nostra professione, ma si spera che questo mostri anche che c’è un altro tipo di narrazione possibile.

La risposta di Palombelli è stata che “anche in un'aula televisiva si ha il dovere di guardare la realtà da tutte le angolazioni". Ma davvero un femminicidio si può osservare da più angolazioni? No. C’è una sola vittima e c'è un solo colpevole e quest’ultimo è chi impugna un’arma per togliere la vita, chi marchia con l’acido, chi alza le mani, chi impone la propria volontà anche davanti a un “no”.

Nelle parole di Palombelli c'è la cultura dello stupro e con essa quei pregiudizi che condannano le donne a uno spazio marginale della società e a una posizione di subalternità rispetto agli uomini. Ripropongono ancora una volta una narrazione a dir poco sbagliata: qui non si parla di rabbia, né di raptus, né di troppo amore. Non si può continuare ad attribuire un femminicidio ad una scarsa lucidità dell’uomo, guarda a caso causata dalla donna stessa o per assurdo dall'amore. Nulla può mai legittimare un femminicidio, qualsiasi sia il livello di tensione all’interno di una coppia e nonostante i “comportamenti esasperanti”, ammesso che esistano.

Lo sa bene l’Associazione Giulia Giornaliste, libera associazione di professioniste, che lavora proprio per un’informazione diversa. Alla luce di «espressioni e atteggiamenti che testimoniano la totale assenza di una cultura di parità e di rispetto nei confronti di madri, mogli, figlie uccise in quanto donne», scrive su Facebook, chiede «che si apra un procedimento disciplinare nei confronti di Barbara Palombelli, giornalista professionista e conduttrice di 'Forum'». Del resto, viene da chiedersi come una giornalista affermata non abbia saputo rispettare le ultime direttive dell’Ordine dei Giornalisti, che tra le regole deontologiche ha inserito proprio la corretta narrazione delle tematiche di genere. Ma Palombelli non è nuova alle affermazioni stereotipate, se si ripensa al suo monologo a Sanremo, che sottolineava quanto fosse fondamentale il ruolo delle donne detentrici del lavoro di cura e al contempo diceva di essere femminista. La risposta è semplice: forse non si tratta “solo” di professionalità e di anni di esperienza, ma piuttosto di responsabilità,  sensibilità, rispetto ed empatia, che scarseggiano. 

Parlare di genere in modo costruttivo 

Propongo alcuni spunti per una narrazione costruttiva di ciò che riguarda le tematiche di genere, per dire che sì, una narrazione diversa è possibile. 

  • Sembra scontato, ma il primo passo è metterci in discussione, chiederci che narrazione facciamo sul tema ed essere disposti/e ad ascoltare punti di vista diversi dal nostro, dando spazio a chi è competente in materia e lavora per fare informazione e formazione. 
  • L’uccisione di una donna non è un comune omicidio. Capita ancora troppo spesso che i media lo presentino in questo modo: chiamiamo le cose con il loro nome, la parola femminicidio esiste ed è doveroso usarla, in quanto identifica la violenza e l’uccisione contro la donna in quanto tale.
  • Il femminicidio è la forma più estrema di violenza, ma non l’unica: tutto ciò che accade prima di questo gesto estremo deve avere voce e spazio. 
  • Basta alla vittimizzazione secondaria e terziaria, che sui giornali e nelle aule di tribunale attribuiscono alla donna una parte di responsabilità per la violenza di cui è vittima o, come in questo caso, per la sua stessa morte.
  • L’informazione e la comunicazione, tanto sui giornali e in tv quanto sui social media, richiedono oggettività, correttezza e accuratezza, accanto al rispetto per chi è coinvolto nelle vicende. Il sensazionalismo e il clickbait non aggiungono nulla alla narrazione, ma contribuiscono a lanciare messaggi sbagliati, che normalizzano la violenza.
  • Le pagine dei giornali spesso sono piene di stereotipi sessisti. Le parole sono l’anima del giornalismo e attraverso queste chi sceglie questa professione può continuare a veicolare questi stereotipi o contribuire a destrutturarli. Dietro le parole si nasconde il pensiero e il pensiero si concretizza nelle azioni: ecco la grande responsabilità di chi fa informazione e contribuisce a formare l’opinione pubblica e il pensiero delle generazioni future.
  • A veicolare gli stereotipi sono anche le immagini, che spesso nel giornalismo non sono usate in modo costruttivo, ma trasmettono il “volto” delle donne voluto dalla cultura patriarcale. Attenzione a come le usiamo.
  • Dare spazio alle donne significa farlo anche attraverso le parole: rifiutare l’uso dei femminili porta a non nominare le donne, ma non nominare significa negarne l’esistenza, viceversa, usarli può contribuire a cambiare le cose.
  • Quando si raccontano parità, disparità e violenza di genere è doveroso mettere al primo posto i dati, ma serve più spazio per storie e progetti di chi ha agito e agisce per dare aiuti concreti. Dare risalto anche a questo tipo di narrazione spinge all'azione e non spegne la speranza di poter combattere questa piaga.
  • Raccontare nel dettaglio anche progetti replicabili per dare stimoli a chi volesse contribuire alla causa.

Federica Carla Crovella

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