Stai Zitta: il pamphlet di Michela Murgia





«Sono solo parole», dicono, ma non c’è atteggiamento più sbagliato quando si tratta di comunicare. Anche quando si tratta di comunicare le questioni di genere, perché dietro le parole c’è il pensiero e il pensiero diventa azione. L’uso scorretto della lingua legittima l’insulto, la mancanza di rispetto, la violenza psicologica, l’abuso fisico, fino a un gesto estremo come il femminicidio.

Sono convinta che le parole abbiano il potere di costruire e decostruire gli stereotipi, diffondere o fermare le discriminazioni, veicolare rispetto o violenza. Ecco perché ho deciso di leggere Stai zitta. E altre nove frasi che non vogliamo sentire più, firmato Michela Murgia, edito da Einaudi nel 2021.

Tra linguaggio ed esperienze di vita vissuta

Come spesso succede, partiamo dal titolo. Nasce da un episodio che ha coinvolto l’autrice in prima persona nel 2020, quando su Radio Capital è stata messa ripetutamente a tacere, proprio con uno sgradevole e irrispettoso "stai zitta", dallo psichiatra Raffaele Morelli. Proprio a seguito dello spiacevole accaduto, Murgia ha deciso di passare in rassegna tante situazioni in cui la donna è discriminata e, soprattutto, mostrare come a questi comportamenti corrispondano anche atteggiamenti linguistici sessisti e irrispettosi.

Il lavoro si concentra proprio su quelle parole e frasi sgradite, che, come dice il titolo, non vorremmo più sentire: spiega perché l’uso che se ne fa è sbagliato e smonta le scuse che più spesso si usano per legittimarle.  

Non fare la maestrina, vuoi sempre avere ragione, sei una donna con le palle, Calmati, Adesso ti spiego, sono esempi di frasi che, a pensarci bene, ogni donna prima o poi si sente dire e che nascondono una certa dose di sessismo, anche se spesso è ben nascosto. Il libro di Michela Murgia aiuta a smascherarlo e «ha un ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più nessuno».

foto da www.globalist.it

Secondo la Treccani il pamphlet è un «Libello, breve scritto di carattere polemico o satirico» e la definizione mi pare calzante per il lavoro di Michela Murgia. Polemico? Sì, non poco. Satirico? A tratti. Ma non perché siano temi che l’autrice prende alla leggera, anzi, non scherza affatto, ma l’ironia pungente che caratterizza la sua scrittura contribuisce a dare forza e intensità al discorso.

Fanno la loro parte anche le illustrazioni e le vignette che introducono in modo esplicativo i singoli capitoli, a cura di Anarkikka, autrice femminista: dalla donna imbavagliata a quella che non accetta di buon grado il catcalling mascherato da “complimento”.

Un punto di vista personale per smontare il linguaggio sessista

Il punto di vista principale è proprio quello dell’autrice, che dal racconto passa alla riflessione e dalla riflessione torna al racconto. Sì, perché ogni capitolo parte da esperienze che Murgia vive in prima persona o situazioni di cui è stata spettatrice; l’episodio fa da “apripista” per approfondire un certo atteggiamento linguistico. Ho apprezzato il taglio personale dato dall’autrice, che contribuisce a creare una forte empatia con chi legge, ma dalla seconda metà del libro il discorso si arricchisce anche di altre voci. Accanto al punto di vista di Michela Murgia si aggiungono anche riferimenti ad altri studi, italiani e stranieri, riferimenti a testi di canzoni e testi letterari; integrazioni di cui ho sentito la mancanza nella prima parte del lavoro e che, mio parere, danno un valore aggiunto.

Il linguaggio e il registro non sono riservati agli addetti ai lavori, non è un libro intriso di tecnicismi – e quelli che compaiono vengono sempre spiegati – ma accessibile e immediato. Arriva dritto al punto senza scivolare nella volgarità o nella sciatteria. In alcuni punti, Murgia riutilizza intenzionalmente espressioni più basse, per restituire proprio quel linguaggio sessista che subito dopo si impegna a smontare.

Federica Carla Crovella

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