Un problema culturale sul campo di beach handball

foto da www.liberoquotidiano.it

Per ciascuna 150 euro di multa, per un totale di 1.500 euro. All’inizio ho sperato fosse una fake news, perché non volevo crederci; poi ho dovuto accettare la triste realtà: in Norvegia la commissione disciplinare della Federazione europea di pallamano sulla spiaggia (beach handball) ha multato la squadra di giocatrici che ha disputato una partita dei campionati in pantaloncini e non in bikini, come, invece, prevede il regolamento. 

Ebbe sì, esiste un regolamento anche per l’abbigliamento. Ci si aspetterebbe che prevedesse un’uniforme innanzitutto comoda, che permetta di muoversi liberamente. Invece, sembra che alla Federazione europea di pallamano stia più a cuore il fisico delle atlete che la prestazione sportiva. Infatti, richiede alle giocatrici di indossare «slip del bikini con una vestibilità aderente e tagliati con un angolo verso l’alto verso la parte superiore della gamba», con l’altezza della stoffa sul fianco non superiore ai dieci centimetri.

Le giocatrici hanno fatto una scelta diversa e hanno optato per una divisa più coprente e comoda, più simile a quella dei colleghi della nazionale maschile, che permettesse loro di muoversi più agevolmente. Sì, gli uomini possono gareggiare in canottiera e pantaloncini, fin sotto il ginocchio, purché «non siano troppo larghi».

La questione era stata sottoposta alla Federazione già nel 2006, con una lettera che spiegava quali fossero le motivazioni del malcontento suscitato dal regolamento. Non solo non tiene conto del disagio di alcune atlete nell’esporre così tanto il proprio corpo, ma, come se non bastasse, mette in difficoltà le portiere, che in bikini non avrebbero coperto e protetto le parti del corpo che usano per parare i colpi. La reazione? Nulla. Infatti, a distanza di ben quindici anni, il regolamento non è cambiato ed è arrivata la multa. Addirittura, la Federazione europea di pallamano ha sostenuto di aver multato le atlete per abbigliamento improprio! Traducendo, quindi, l’abbigliamento più consono sarebbe stato quello che mette in secondo piano la comodità e la praticità richieste dallo sport, per soddisfare la prescrizione di un regolamento sessista, chissà, forse redatto da un uomo? È probabile per due motivi: il primo è che il bikini sembra pensato soprattutto per soddisfare e compiacere uno sguardo maschile, tanto è vero che, addirittura, ci sono delle indicazioni ben precise anche sulla taglia. 

Sorgono spontanee due domande

  • ma davvero c’è chi fa caso all’ altezza della stoffa che sul fianco non supera i dieci centimetri? Durante una competizione sportiva, soprattutto. Parliamo di personale sportivo qualificato e tifosi che amano questa disciplina o di persone affette da voyeurismo? 
  •  il bikini quale grande beneficio può portare alle atlete e al conseguimento del loro obiettivo? Nessuno.
foto da www.greenme.it

Qualche riflessione su corpo e soldi

Che valore ha il corpo femminile? In questo caso meno di zero, perché ad un oggetto forse se ne attribuisce di più, ma comunque è stato “pesato e valutato” 150 euro caduno. Alto, magro, basso, in carne ma, soprattutto, femminile. 

Fateci caso: volente o nolente, il corpo delle donne in qualche modo si lega sempre alla sessualità e, in un modo o nell'altro, ai soldi. È così da secoli, ovunque. La reificazione del corpo femminile ha attraversato la storia, la letteratura, molteplici forme d’arte ed è ancora al centro della cronaca. Siamo nel 2021 e ancora c’è chi paga per avere il corpo di una donna e con esso annesse prestazioni sessuali e trovare appagamento in un involucro dentro cui poco importa che ci sia una persona. Si paga per un intervento chirurgico che renda il corpo esteticamente più appetibile, si paga per i prodotti dedicati alla cura del corpo, che non sempre danno risultati reali.

Non ci si ferma a questo, ma, a quanto pare, c’è anche chi infligge una pena pecuniaria perché il corpo delle donne non si vede abbastanza. Quindi, chi ha la “colpa” di essere nata femmina, con un corpo che può essere barattato per denaro, in questo caso non solo dovrebbe essere merce in vetrina, ma se non lo fa deve anche pagare.

Sembra tutto basato sulla logica del “do ut des”…ma le atlete della nazionale che cosa hanno avuto? Si sono prese con la forza un diritto che dovrebbe essere loro normalmente, non per gentile concessione o per bontà. Invece, hanno dovuto faticare e combattere. Sono state umiliate, perché trattate come pezzi di carne misurati in centimetri di pelle scoperta e non considerate prima come persone e poi come professioniste dello sport. Hanno anche dovuto subire l’imposizione di una pena pecuniaria, quindi doppiamente umiliate, come se fosse normale scegliere tra mettersi in mostra o pagare una multa per poterlo evitare.

Che lo si voglia o no, un regolamento che impone quanti centimetri di pelle debbano restare scoperti spiana la strada a voyerismo e body shaming. Quante volte sarà capitato, e non solo involontariamente, a qualche tifoso della nazionale femminile di non fermarsi a guardare e giudicare solo la partita?

La parità si allontana

La parità nello sport non significa soltanto presenza - che comunque non c’è - delle donne nei ruoli apicali o parità retributiva, ma anche parità di trattamento. Questo episodio è stato il fallimento del percorso verso la parità e, al contrario, è stato il trionfo del sessismo e della discriminazione.

Mostrare il proprio corpo molto più del dovuto non è mai necessario, tantomeno in un contesto sportivo, dove l’obiettivo non è farsi guardare, ma far guardare un bel match. Ciò che è successo sarebbe da condannare per molti motivi: è sessista che ci sia l’obbligo per le donne di mostrarsi fisicamente; è sessista che le atlete siano state accusate di essere inadempienti perché hanno preferito essere più comode che nude; è sessista che alla mancata esposizione del corpo corrisponda una pena pecuniaria; è sessista e discriminatorio che per gli uomini ci sia un trattamento diverso. La parità, di questo passo, non può che allontanarsi sempre di più.



Fortunatamente, il capo della Federazione norvegese è dalla parte delle giocatrici e ha sostenuto che «le atlete dovrebbero indossare ciò che ritengono più comodo e più adatto per giocare, senza essere obbligate a mettere lo slip»: la cosa più importante, ha concluso, sarebbe avere delle divise con cui le atlete si sentono a loro agio. Il portavoce della Federazione europea di pallamano aveva già avanzato la richiesta di mettere mano al regolamento e si spera che, davvero, venga preso qualche provvedimento sensato in merito.

Questo episodio conferma che, prima di tutto, è un problema culturale. È lì che si dovrebbe intervenire immediatamente. Si dovrebbe sradicare alla radice l’idea che il corpo della donna sia fatto apposta per essere guardato da chiunque voglia e sia ad uso e consumo del sesso forte. Solo a quel punto i centimetri di pelle scoperti nella donna non saranno tanto diversi da quelli scoperti nell’uomo, come è giusto che sia nei contesti in cui non è il corpo la priorità. No, su un campo di beach handball, come in qualsiasi altra disciplina, al centro non c’è il bel corpo, ma lo sport fatto bene, in modo etico.

Federica Carla Crovella

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