Due domande sull’uso del linguaggio


La parola sessismo non è così vecchia: nasce nel 1974 ed è la «tendenza per cui, nella vita sociale, la valutazione delle capacità intrinseche delle persone viene fatta in base al sesso, discriminando specialmente quello femminile rispetto a quello maschile», dice il dizionario Zingarelli.

Perché parto dalla parola? Non sempre si pensa alla lingua quando si parla di sessismo, ma questa associazione si dovrebbe fare eccome. Il sessismo linguistico è l’espressione attraverso la parola di quel modo di pensare che dà valore alle persone in base a una caratteristica biologica.

L’italiano è sessista o è sessista il modo in cui lo usiamo?

Possiamo dire che è una lingua a matrice maschile e questo rispecchia la realtà e la struttura sociale e culturale in cui viviamo. Cioè? Dal genere maschile deriva quello femminile e, col tempo, ci siamo abituati a questo, che è diventato la regola: ecco perché c’è la tendenza a usare il maschile sovraesteso – ne ho scritto qui. Allo stesso modo, abbiamo imparato fin dalle elementari a fare le concordanze al maschile quando si accostano due sostantivi di genere diverso. Per esempio diciamo: “le bambine e i bambini sono stati entusiasti della giornata”. Questo rispecchia la mentalità della nostra società, che in alcuni casi di default subordina la donna all'uomo. 

Ma dire che la lingua è a matrice maschile non significa che sia sessista. Infatti, subentrano le caratteristiche della lingua stessa e le possibilità di scelta. L’italiano ha in sé delle soluzioni per non essere usata in modo sessista.

 Ad esempio, possiamo chiamare “architetto” un professionista di genere maschile e “architetta” una professionista di genere femminile. Possiamo scegliere di non usare il maschile sovraesteso e cercare delle alternative. Possiamo chiederci quale sia il modo migliore di rivolgerci a persone che non si riconoscono né nel maschile né nel femminile. Possiamo fare attenzione a come ci rivolgiamo quando parliamo di una donna o di una persona omosessuale, eliminando dal nostro vocabolario termini come “zoccola” o “frocio”.

Insomma, possiamo usare l’italiano in modo non discriminatorio e non sessista. Forse però, non siamo sempre pronti a farlo, sia per mancanza di formazione sia per disinteresse e ribellione ai cambiamenti. Poi, bisogna dirlo, a volte anche per sessismo, ma per fortuna si tratta di qualche caso a sé. Quindi, tornando alla domanda? No, l’italiano non è sessista. L’uso che ne facciamo a volte sì.

Il problema più grande arriva quando manca la volontà di usare il linguaggio in modo appropriato.

L’esempio più palese mi sembra il caso dell’insulto: in quella situazione non c’è la voglia di confrontarsi e capire un punto di vista diverso dal nostro, ma si pensa solo a offendere.

Perché in quella circostanza ci rivolgiamo alle donne con appellativi che riguardano la sfera sessuale? C’è davvero questa necessità? Dove sta il legame tra la sessualità femminile e un torto, più o meno grave, fatto da una donna? È in un pensiero, che esprimiamo attraverso il linguaggio: individuo di genere femminile = sessualità. Questo accade soprattutto nell’immaginario maschile, ma a volte, in modo ancora più triste, anche nella testa di altre donne. Accanto, poi, c’è la volontà di colpire con l’offesa più grave possibile, quindi diretta alla sfera intima e personale.   

Che fare, invece, quando manca la consapevolezza? La risposta più immediata che posso dare è formarsi, provare a capire davvero quali siano le potenzialità della nostra lingua e come poterle usare bene, in modo non sessista e in modo inclusivo.

Perché c’è resistenza al linguaggio inclusivo? 

Usare un linguaggio inclusivo vuol dire fare un uso della lingua che non discrimini sulla base di determinate caratteristiche, ma che “abbracci” il maggior numero possibile di persone. L’idea di l’inclusività viene facilmente associata al genere, ma riguarda anche l’etnia, la disabilità e tante altre caratteristiche, che comunemente intendiamo come “diversità”.

Ciò che è sentito come “diverso” sfugge al nostro controllo e a volte fa addirittura paura, perché viene sentito come una minaccia, come qualcosa che potrebbe danneggiarci o toglierci qualcosa. Ecco che, allora, lo rifiutiamo, lo releghiamo ai margini, facendo proprio ciò che temiamo per noi: lo emarginiamo. Allora, la prima risposta è la paura, spesso e volentieri del tutto immotivata. Ad esempio, fa paura ed è scomoda la riconoscibilità che possono dare un * o uno ə a chi non si ritrova nel binarismo di genere, ovvero la netta separazione maschile/femminile. Si ribatte dicendo che, in questo modo, si negano il maschile e il femminile, ma la volontà è semplicemente trovare una soluzione alternativa all’uso generalizzato del maschile.

Spesso, il rifiuto è determinato anche dall’ abitudine, il “si è sempre fatto così”. Se non si è mai sentita la necessità di parlare in modo inclusivo, perché si dovrebbe cominciare adesso, minando le più basilari certezze?  Del resto, sin dai primi anni di scuola i libri di grammatica insegnano l’uso del maschile sovraesteso. In questo modo, però, ci adagiamo su una “comoda abitudine” e questo può rivelarsi non solo sbagliato, ma anche nocivo, per noi e per il prossimo. In che modo? La lingua cambia e si muove insieme alla società, non è statica. Rifiutare il cambiamento significa rimanere fermi, spesso dentro convinzioni superate e questo non ci permette di rapportarci in modo costruttivo con chi ci sta accanto. Infatti, in questo modo togliamo la possibilità a chi nel maschile non si riconosce di diventare riconoscibile ed essere parte attivamente della nostra società.

Alcune soluzioni linguistiche suscitano diffidenza perché vengono scambiate per invenzioni, ma in realtà alcuni non lo sono affatto. Spesso c’è anche mancanza d'informazione su questi temi. 

È il caso di femminili nelle professioni. Non tutti sanno che esistono da sempre e fanno parte della natura della nostra lingua, quindi subentra il “suona male”. Siamo abituati e accettiamo di dire maestra perché nella nostra visione delle cose è naturale che questa professione venga attribuita a una donna e, da sempre, è normale che sia chiamata così. Non è ancora considerato “normalità” che la donna sia ministra o sindaca e quindi si rifiuta anche l’espressione linguistica, nonostante oggi dentro questi ruoli siano annoverate anche le donne e, di conseguenza, ci sia la necessità di attribuire loro un titolo, coerente con la posizione sociale ma anche con loro essere persone e donne.

 La resistenza al cambiamento linguistico molto spesso non è inconsapevole e non è nemmeno davvero un fatto linguistico, ma diventa politico. Cioè? Spesso non è la declinazione al femminile il problema, o l’asterisco, ma ciò che sta dietro: il ruolo e l’assunzione di potere che, in questo modo non sono più riservati all’uomo bianco etero, ma spettano anche alle donne, alle persone omosessuali, alle persone che appartengono a etnie o religioni diverse.  In questo modo, tante persone si prendono uno spazio e, con esso, la possibilità di essere nominate ed esistere con le loro peculiarità.

Tutte queste possibili risposte hanno un denominatore comune: cercano di ridefinire posizioni e ruoli di chi non rientra nel concetto di “normalità” condiviso dalla maggioranza. Come?  Facendo sì che non stia più ai margini. Questo si rispecchia anche nella linguistica, che cerca di fare altrettanto, permettendo a queste persone di essere nomate e quindi esistere nella comunità, anche con le parole.

Federica Carla Crovella

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