Sovraesteso, non marcato, inclusivo, generalizzato: il maschile che esclude le donne


L’italiano è una lingua flessiva con due soli generi, il maschile e il femminile; in molte situazioni, però, ricorre al maschile sovraesteso, detto anche generalizzato.  Questa modalità attraversa tutta la lingua italiana e si verifica, spiega la studiosa Alma Sabatini, quando «qualsiasi sostantivo maschile (singolare o plurale) riferito a persona può ugualmente rappresentare i due sessi o il solo maschile: “gli italiani” possono essere sia “gli uomini italiani” sia “le donne e gli uomini italiani».

Parlando o scrivendo ci si riferisce a un gruppo di persone composto da uomini e donne, ma uno dei due generi, ma quello femminile viene “inglobato” dentro quello maschile. 

Facciamo un esempio pratico? Basterà entrare in una stanza in cui ci siano sei donne e tre uomini: il saluto diventerà “buongiorno a tutti”. Sono poche le persone tanto attente e sensibili da modificare il saluto in “buongiorno a tutte e tutti”.

In italiano è frequente che tra uomo e donna si crei disparità linguistica di tipo grammaticale: l’uso del maschile sovraesteso, non marcato, generalizzato o inclusivo è una possibile causa di questa disparità e talvolta crea anche discrepanze e incomprensioni a livello di significato. 


Il fenomeno

Ha tante denominazioni, ma la sostanza è sempre la stessa: è la funzione bivalente del genere maschile, che si riferisce sia al genere maschile sia a quello femminile, includendo così in modo un po’ ambiguo il femminile dentro il maschile. L’uso del maschile sovraesteso non menziona e quindi esclude il femminile mentre lo ingloba e, di fatto, conferma l’uso di un linguaggio androcentrico.

Attraverso il ricorso al maschile generalizzato, la donna non è nominata, non spicca all’interno di un gruppo e quindi scompare, ma c’è.

In questo caso, siamo davanti a un uso binario della lingua. E da precisare che il maschile sovraesteso (e anche il binarismo) esclude le persone che non si riconoscono né nel genere femminile né in quello maschile. Ci sono tante proposte che si stanno facendo strada, affinché la nostra lingua diventi più inclusiva, ma meritano un discorso a parte.


Come si concretizza in italiano?

  • Con termini maschili che indicano gruppi composti da uomini e donne, ad esempio “i volontari italiani” per indicare donne e uomini che ricoprono il ruolo di volontari. Perché non usare in parallelo maschile e femminile?
  • Con l’accordo al maschile di aggettivi o participi, in presenza di parole maschili e femminili, ad esempio “bambini e bambine erano euforici per la bella notizia”. In questo caso, è consigliabile accordare aggettivo o participio con il genere a cui appartiene la maggioranza oppure con il genere dell’ultimo sostantivo menzionato.
  • Con l’uso di espressioni al maschile, che però vorrebbero includere anche le donne, come “i diritti dell’uomo”. In questo caso, una soluzione preferibile sarebbe: “i diritti umani” o “i diritti della persona”, per non sottintendere e quindi escludere dal discorso le donne. Allo stesso modo, si usano termini come ad esempio “fratellanza”, che predilige un punto d vita maschile ed esclude quello femminile, anche se in questo valore possono riconoscersi anche le donne. 
  •  Con la precedenza del maschile nelle coppie di sostantivi che contrappongono genere maschile e femminile, per esempio fratelli e sorelle, ragazzi e ragazze.

Ecco alcuni esempi che fanno capire quanto l’uso del maschile marcato sia pervasivo nella nostra lingua. È frequente anche l’uso di termini, spesso professionali, al maschile anche quando il referente è donna. Ad esempio? “Il sindaco di Torino”, anche se è risaputo che attualmente il ruolo è ricoperto da Chiara Appendino. Sull’uso del femminile nelle professioni ho scritto nel dettaglio qui.


 

 Che cosa succede nella nostra testa?

Alcuni studi psicolinguistici stranieri, applicati in particolare all’inglese e al tedesco, hanno rivelato che un termine maschile nella mente delle persone rimanda con molta più probabilità a un referente di genere maschile.  Esiste anche un principio, che dipende da fattori extralinguistici, secondo cui se pensiamo agli “esseri umani”, non ci vengono in mente le donne, bensì gli uomini e questo entra in gioco anche quando siamo davanti a un termine che non rimanda a un genere preciso, per esempio “gente”.

 Quando il maschile ostacola la comprensione

Ci sono casi in cui l’uso del maschile sovraesteso può creare delle alterazioni di significato.

Ad esempio, su un giornale si potrebbe leggere “il ministro incinta”. In questo caso, quando si legge “ministro”, si pensa subito ad un uomo che ricopre quel ruolo, ma dal termine “incinta” si capisce che si tratta di una donna. Un altro caso simile, che può portare fraintendimenti e incomprensioni? “Il marito del ministro”, anche quando il ministro è una donna. Questi sono casi in cui si può incorrere in incomprensioni dal punto di vista del significato, ma la grammatica? C’è di mezzo anche quella e se “il ministro incinta” già è difficile da digerire, può anche capitare di leggere, ad esempio: “Il ministro Elena Bonetti è arrivata stamattina a Milano...”.

Da questi esempi risulta evidente che quando si parla di linguaggio di genere non è solo una questione di lotta per la parità, rispetto e inclusività, ma anche di grammatica e comunicazione.

                                                                                                     Federica Carla Crovella

 

 

 

  

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