Quando le donne scelgono di essere ‘architetto’, ‘avvocato’, ‘direttore’: scelta di prestigio o autogoal?
Foto da RebelArchitette \ DETOXING ARCHITECTURE FROM INEQUALITIES: A PLURAL ACT |
Nel 1800,
dietro lo pseudonimo maschile di “Antoine-Auguste Le Blanc" c’era una
matematica francese, che ha lavorato nei campi della teoria dei numeri e
dell'elasticità: Sophie Germain (1776-1831) doveva firmarsi con un nome
maschile per potersi affermare nella comunità scientifica. Nasce proprio da lei
il cosiddetto “effetto Matilda”, che negli anni ha portato molte scienziate
a sparire dalla storia. Chissà
quante altre donne, come lei, si saranno nascoste dietro un nome da uomo?
Che
cosa c’entra questo con il linguaggio?
Leggere la
storia di questa donna mi ha portato a fare un’associazione con la
contemporaneità. Non perché le donne oggi si firmino con pseudonimo, se non in
qualche caso particolare che lo richiede, ma per un parallelismo con la
questione della declinazione delle professioni al femminile.
Talvolta si
pensa che l’uso del femminile “faccia male alle donne” perché meno prestigioso
del maschile e quindi svilente anche per la professionalità delle stesse.
Ecco che, allora, le donne continuano a sparire “per prestigio”, non più dietro
uno pseudonimo maschile, ma dietro un titolo declinato al maschile. C’è una certa
continuità col passato, seppur in modi diversi.
Alcuni
esempi contemporanei
Non è solo
una pratica dura a morire per il genere maschile; talvolta dipende dalla
volontà delle donne stesse. Un esempio è Susanna Camusso, che alla richiesta
se preferisse essere chiamata segretaria o segretario, rispose che «per
attitudine sarebbe preferibile il femminile», ma che sperava di essere definita
segretario, «perché attiene alla funzione e non alla persona».
Siamo davvero sicur* che oggi abbia senso scindere così nettamente funzione e persona? Prima di essere lavoratori e lavoratrici non siamo persone? Il nostro essere persone, con un’identità di genere, non è forse parte di noi? Non influenza le nostre scelte e il nostro percorso, sul breve e sul lungo periodo?
Dietro la
scelta di ‘segretario’ credo ci sia anche una questione di presunta autorevolezza.
Ancora oggi, secondo il sentire comune, la parola declinata al femminile spesso
intacca la connotazione del termine e lo rende negativo. Ad esempio, stando
a questo caso specifico, avere una segretaria innalza il prestigio degli
uomini, ma essere una segretaria svilisce le donne che rivestono questo ruolo. Forse,
inconsciamente, la scelta di farsi chiamare “segretario” probabilmente aiuta
anche a sentirsi e apparire più autorevole agli occhi degli altri. Su questo ha
scritto Maria Laura Rodotà sul Corriere della Sera, facendo notare come il problema principale sia lo svilimento del
nome e insieme del ruolo femminile, perché ciò che riguarda la sfera femminile,
spesso viene automaticamente degradato. «Se un segretario può essere un
leader, una segretaria non lo è. Se un sindaco è un sindaco, una
“sindachessa” rischia di apparire un personaggio da farsa. Se un ministro è di
sicuro un membro del governo, una ministra fa pensare alla minestra», scrive.
Sono
tanti i casi come questo, più di quanti immaginiamo, il problema è che molti,
troppi, non vengono a galla e non li vediamo.
Un altro esempio? Si è parlato tanto della direttrice d’orchestra che a Sanremo ha voluto il titolo di direttore. Il problema principale resta il perché dietro prese di posizione come questa. Spesso è una scelta motivata dalla convinzione che solo l’uso del maschile sia sinonimo di prestigio e competenza, in particolare in quegli ambiti a cui le donne hanno avuto accesso tardi o in cui non siamo abituat* a vederle, proprio come la direzione d’orchestra.
A volte anche
le donne pensano sia irrilevante il genere, che non dovrebbe interessare
a chi interagisce con loro professionalmente, oppure sono convinte che la
declinazione della professione al maschile possa dar loro maggior
autorevolezza e quindi preferiscono essere avvocato, ingegnere, e
architetto. In questo modo, però, sono loro stesse a togliere prestigio alla
loro professione e anche un po’ a loro stesse il quanto professioniste e donne.
Perché? Automaticamente, a parità di qualifiche e competenze, l’avvocata sarà
meno affidabile e benvoluta dell’avvocato, nella percezione comune.
Ogni scelta è da rispettare e, se vogliono essere chiamate al maschile, non ha senso imporre il femminile, perché si otterrebbe l’effetto opposto. Ma sorge spontanea qualche domanda.
Essere
professioniste affermate in un settore non è abbastanza per andare orgogliose
di quel ruolo e dichiararlo, in qualità di professioniste e di donne, che si
sono affermate nonostante le difficoltà e i pregiudizi verso il genere
femminile?
Questo traguardo
raggiunto non merita la denominazione, al femminile, che corrisponde in
italiano a quel ruolo? È già stato dimostrato da linguiste e linguisti che i
femminili non sono innovazioni, ma sono presenti nella lingua e nei dizionari da
tempo. Vera Gheno insegna…e non solo lei.
Credo che
il primo passo per fermare le discriminazioni e le differenze sia fare in modo
che architetta, sindaca e assessora non suscitino più scandalo e sdegno. In
questo modo ci sarebbe la reale parità, pur rispettando e mettendo in
evidenza le differenze, che in questo caso dovrebbero essere solo linguistiche
e non di valore. Perché è importante mantenere questa differenza linguistica?
Vorrebbe dire smettere di nascondere il fatto essere donne dietro la nostra
professionalità, ma far procedere insieme queste due parti di noi.
Oppure
ricorrono al benaltrismo e al “ci sono cose più importanti”, dimostrando
di non comprendere il valore della comunicazione, che si lega al modo in cui
viviamo, perché spesso da come scegliamo di comunicare nascono atteggiamenti e
dagli atteggiamenti dei modi di vivere. L’uomo, da parte sua, forse rifiuta il
femminile anche perché non ammette che dietro l’affermazione linguistica ci
sia un’affermazione anche politica, sociale e culturale della donna; lei spesso
finisce per farsi travolgere dalle logiche dominanti e tende a cercare ciò
che le porta meno danno materiale, senza rendersi conto di danneggiarsi da
sola.
Non si può negare che dietro questa decisione ancora oggi ci sia un forte condizionamento da parte della società, ma, a mio parere, possiamo provare a cambiare le cose e prendere in mano la situazione. Per farlo, un po' di responsabilità dobbiamo prendercela e pensare, noi per prime, a farci del bene valorizzandoci come professioniste.
Federica
Carla Crovella
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