Il femminile delle professioni…con l’aiuto di Vera Gheno
Sono a
favore dell’uso del femminile nelle professioni perché le parole non
sono un accessorio e perché siamo noi che determiniamo i cambiamenti della
lingua mentre la parliamo. Ne siamo responsabili. La lingua non è immutabile e
immobile, anzi, si modifica con l’uso. Pensate alla grande diffusione delle
parole inglesi, a “ciaone”, a “petaloso” e via dicendo.
Sono a
favore dell’uso del femminile nelle professioni perché nella mente di
molte persone, e di conseguenza spesso anche nei fatti, ciò che non si nomina
automaticamente non esiste, o perde di valore e viene lasciato nell’angolo.
Viceversa, l’uso consapevole delle parole può contribuire anche a riconoscere
e regolamentare la presenza di qualcuno nella nostra società, in questo caso
delle donne.
La
desinenza al maschile usata per le donne non lascia lividi e non uccide, ma lasciar
correre vuol dire legittimare un uso sbagliato delle parole. Il passo
successivo sarà lasciar passare anche tanti altri soprusi. Non per tutti,
ovviamente, ma per molti. Non è sempre vero che «tanto ci si ferma prima» e i
tanti femminicidi lo confermano. Spesso c’è un’escalation di violenze, che non
dovrebbe nemmeno cominciare.
Cinque "giustificazioni" – e non sarebbe
finita qui -
Mi appoggio a un contributo di Vera Gheno, sociolinguista, pubblicato su valigiablu. Passa in rassegna le obiezioni più comuni sull’uso del femminile da parte di chi proprio non vuole saperne... e spiega perché non sono giustificazioni.
Foto da intoscana - Il Portale ufficiale della Toscana |
Nonostante questo, nascono le polemiche sull’ uso di architetta, assessora, sindaca. Davvero suonano così male? Ci sono molti neologismi che entrano piano piano nell’uso comune, nel parlato più facilmente che nello scritto. Indubbiamente, a volte è questione di abitudine. Serve tempo. Ma questo non significa non accettare un termine nuovo. Forse non è il suono che non piace, ma un femminile che si prende il suo spazio.
C’è anche chi parla di assonanze e dice che ‘ministra’ ricorda minestra e ‘architetta’ fa ridere perché si avvicina a tetta. Ma non possiamo accettarla come spiegazione plausibile. Ci sono tanti termini che si somigliano, poi ci sono quelli che fanno pensare a un doppio senso, eppure, li usiamo, dice Vera Gheno, e procede con qualche esempio secondo me molto efficace. «Fallo calcistico, palle da tennis, pene d'amore, sfigato, tettonica a placche, stronzio (l'elemento chimico), cavallo di Troia, zoccoli di legno, benefica, retto cammino, cazzuola, scazzare, seno e coseno …» e continua ancora. Forse, dopo questa carrellata, ministra e architetta saranno un po’ meno imbarazzanti, ma più probabilmente frutto di un pregiudizio.
Un'altra
motivazione che viene data è la polisemia. Quando si tratta di nomi
femminili spesso ci si pone il problema di non poter usare un termine perché ha
già un altro significato. Vera Gheno però fa notare come in questo caso sia un
“problema” che entra in gioco un po’ troppo di frequente, fino a diventare in
tutto e per tutto una scusa. In molti altri casi, non sembra così importante
che un termine abbia più significati. La sociolinguista non demorde e torna su
degli esempi. Ne prendo uno come esempio: molti non dicono che una donna è «chimica o fisica perché
indicano già la materia (ma anche fisico può riferirsi sia al
mestiere sia alle caratteristiche del corpo di una persona)», dice, e prosegue
ancora fino a far cadere anche questa obiezione.
Molti
dicono che “si è sempre fatto così”, ma anche questa motivazione per
Vera Gheno ha vita breve. Spiega che fin dall’antichità esiste il femminile di
ministra o giudicessa. Basta aprire i libri o i vocabolari di latino. Oggi le
donne stanno entrando dentro professioni che fino a poco tempo fa erano sentite
come tipicamente maschili e di conseguenza abbiamo bisogno dei termini per
definirle. Termini come “architetta” e “avvocata” semplicemente non erano in
uso, ma esistevano eccome. Spesso sono professioni in cui le donne sono entrate
relativamente tardi questora, assessora, ingegnera, quindi
anche in questo caso si tratta di stravolgere un’abitudine, ma anche di
legittimare un ruolo che prima non c’era. Allora, la strada più breve, più
facile, ma anche meno corretta in italiano è continuare a dire “architetto” o
“avvocato”, anche per le donne.
In molti
casi sono le donne stesse a volere il maschile, si pensi al caso recente tanto
discusso della direttrice d’orchestra a Sanremo. È una scelta personale ed è
giusto che ciascuno di noi decida in autonomia di farsi chiamare come meglio
crede, ma forse, il problema di fondo è la motivazione. Anche le donne in
questi casi rispondono che la parità di genere si determina in altri modi e non
con una vocale, ma troppo spesso c’è chi sceglie il maschile per poter essere
riconosciuta più facilmente come professioniste ed essere sentita come più
autorevole.
Chi non ha mai pensato di “fare male all’italiano” dicendo ingegnera? Vera Gheno non si lascia intimidire e passa in rassegna caso per caso. Spesso basta cambiare l’articolo e il problema è risolto. Diciamo il/la pediatra, il/la custode. Non hanno lunga vita le polemiche di chi, per provocazione, dice «allora da oggi devo dire “il pediatro”». Poi ci sono i nomi di genere mobile, che decliniamo in base alle regole morfologiche dell’italiano: rettore-rettrice, maestro-maestra (e ministro-ministra), sarto-sarta (e avvocato-avvocata), infermiere-infermiera (e ingegnere-ingegnera) e così via. Ma si dice avvocata o avvocatessa? Ce lo spiega Vera Gheno. È meglio usare il femminile con suffisso zero e non il suffisso -essa, perché quest’ultimo nasce principalmente per indicare le “mogli di”, oppure, in passato veniva usato con senso dispregiativo. Certo, ogni caso poi è a sé, ma niente paura, un dizionario aggiornato può sempre venire in nostro aiuto. Vera Gheno tiene molto a sottolineare l’importanza del vocabolario e consiglia lo Zingarelli.
Federica
Carla Crovella
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