Violenza sulle donne e giornalismo: quanto c’è ancora da fare!

Violenza sulle donne e giornalismo

Si cerca sempre un perché della violenza e si trova anche nella narrazione dei media. Spesso, però, non è del tutto aderente alla realtà.

Che cosa si legge ad apertura di giornale? Che cosa si sente al tg?

La violenza viene quasi sempre associata all’amore: si parla ancora di delitto passionale, quindi come fatto privato e non di fenomeno che ha bisogno di un’azione collettiva di contrasto. Paradossalmente, il movente è l’amore verso un’altra persona, che, se non è più corrisposto, trova nella morte l’unica via. 

Il termine raptus, che si legge ancora sui giornali, rispecchia poco la realtà ed è presentato come qualcosa di inaspettato. Insomma, per i media spesso la violenza capita, non viene agita. Però, se si va un po’ a fondo, andando oltre quello che si scrive, si scopre che è semplicemente l’ultima tappa di un’escalation di violenze, magari inframezzata da una o più denunce. Spesso è un’azione anche premeditata. Quando non si usa il termine raptus, lo si nasconde dietro perifrasi, ad esempio ‘scoppio dell’aggressività’ o ‘impeto d’ira’, che comunque contribuiscono a giustificare la violenza.

Spesso, stando ai giornali, il principale problema delle donne non è la violenza domestica, bensì lo stalking, ma non sempre si dà conto dei dati per quelli che sonoIl nostro retroterra culturale ci condiziona anche nel modo di rappresentare la violenza: spinge a giustificare il maltrattante e a colpevolizzare la vittima. 

‘Destino’, ‘tragedia’, ‘fatalità’ oppure ‘omicidi di donne’. Sono queste le parole che si leggono sui giornali, ma spesso non si ricorre all’unico termine che rispecchia la realtà: femminicidio. È l’“uccisione di una donna o di una ragazza”, ma anche

“qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte” (Devoto-Oli 2009).

Le parole esistono e dovrebbero raccontare i fatti, ma perché non succede? Spesso non sembra così necessario dire che la vittima appartiene al genere femminile; respingendo il termine femminicidio, però, spesso si rifiutano l’evoluzione e il progresso culturale e giuridico che questa parola dovrebbe portare con sé.



Usciamo per un attimo dal caso di femminicidio: l’eccessiva insistenza che sfocia in stalking viene presentata come semplice corteggiamento, il revenge porn è una goliardata e così via. Minimizzare innanzitutto: questa è la logica. Si minimizza anche perché dietro quelle parole ci sono atti molto più grandi e pericolosi, che forse, in fondo, spaventano.

Molte volte anche la narrazione dei fatti diventa una manipolazione.

Chi si intervista quando c’è un femminicidio? I vicini di casa, poi il sindaco, il prete e così via. Da qui molte volte nascono articoli incentrati sulla personalità dell’uomo, perfetto padre di famiglia e marito amorevole. In questo modo, la violenza sulle donne sembra essere senza colpevoli; o meglio, la narrazione indica il colpevole sbagliato: la donna diventa la causa di questo gesto, improvviso e inaspettato, che quindi è una semplice reazione. Si colpevolizza la vittima, altrimenti detto victim-blaming, che vuole interrompere la relazione e ricominciare, senza chiedersi se dietro ci sia un maltrattante.

Questa narrazione spesso fa sì che siano i comportamenti delle vittime ad essere analizzati e messi sotto i riflettori; raramente si focalizza sull’aziona violenta dell’uomo. Quando, invece, si concentra su di lui, racconta una persona devastata dalla separazione o dal tradimento. Questo modo di presentare i fatti crea empatia nei confronti di chi fa violenza e condiziona l’opinione pubblica, senza trasmettere la consapevolezza dei diritti che sono stati violati, primo tra tutti quello della vita.

Un altro modo di rimuovere la violenza è soffermarsi sul conflitto presentandolo come parte normale e legittimata della relazione. Lo è quando presuppone un confronto paritario e costruttivo tra le parti, ma non se esercita dominio e controllo sulla donna.

Perché questa narrazione? Molto spesso perché si tende a rimuovere la responsabilità della violenza, ma anche perché una narrazione diversa è sentita come noiosa e viene etichettata come narrazione troppo femminista.

La narrazione non è solo contenuto

Il linguaggio è uno strumento che permette di tramandare o sovvertire gli stereotipi: sta a noi decidere. Gli stereotipi, però, spesso sono percepiti come cuscini comodi a cui appoggiarsi: non è poi così vero che si atterra sul morbido, perché le narrazioni tossiche sono espressioni di una violenza. Non saranno abbastanza scomodi, questi cuscini, fino a quando saranno legittimati certi linguaggi.

La narrazione giornalistica spesso tende ad attenuare i fatti anche con le parole, che invece, sono lo strumento per eccellenza che racconta la realtà. Abbiamo visto l’esempio del termine femminicidio.

Poi ci sono le parole che alterano e ingigantiscono. Ad esempio? Il titolone accattivante, usato per attirare i click, che magari non corrisponde a verità. Le immagini hanno lo stesso ruolo: inutile dire che il corpo femminile è sempre presentato come un oggetto. Spesso ritraggono le donne in posizioni provocanti o come corpi sottomessi e contribuiscono ad alimentare una narrazione sbagliata: tendono all’estetizzazione e all’ erotizzazione della violenza, come se anche questa dovesse avere un appeal. Le donne rappresentate corrispondono ai canoni di bellezza ormai radicati e prescritti: sono giovani, belle, magre, attraenti. Molto di frequente sono poco vestite e spesso curate anche se hanno un labbro sanguinante o un occhio nero. Anche le immagini dovrebbero essere più pertinenti e realistiche, così come la narrazione.



C’è molto lavoro da fare sull’inclusività del linguaggio, non solo per quanto riguarda le donne e non solo quando si parla di violenza. Gli esempi e le considerazioni da fare sarebbero ancora innumerevoli, ma ci sono a disposizione altre fonti più approfondite.

Mi limito a fare qualche esempio. Mettere l’articolo davanti ai cognomi è un altro modo per rendere le donne degli oggetti. Quanti articoli scrivono “la Raggi”, “la Meloni”, “la Boldrini”?  È altrettanto sbagliato nominare le donne solo con il nome e non con il cognome.

Spesso, poi, si usa il maschile inclusivo, che ovviamente comprende le donne, ma non permette loro di emergere e spinge a darle sempre per scontate, “cedendo il passo” automaticamente al maschile.

C’è molto da dire anche sull’uso del femminile, in particolare nelle professioni, ma ci sarà tempo per parlarne. 

 Il linguaggio non è solo il nostro mezzo di comunicazione, ma anche uno strumento che per concedere a ciò di cui parliamo di esistere e di vivere nell’immaginario comune. Usiamo bene le parole.

Federica Carla Crovella

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